Storia di Giuseppe Gulotta, sotto processo per 36 anni

Il 27 gennaio 1976 Trapani si svegliò sotto shock: in località Alcamo Marina, nella notte, alcuni malfattori fecero irruzione all’interno di una stazione dei carabinieri, uccidendone due con un’arma da fuoco, i giovani Carmine Apuzzo e Salvatore Falcetta.

Oggi, 46 anni dopo, la strage è ancora irrisolta. Sebbene si tenda a pensare che gli artefici erano parte di Cosa Nostra, terroristi o trafficanti di armi, non è mai stato identificato correttamente il colpevole o i colpevoli. Le ipotesi investigative hanno aperto diverse piste, che negli anni hanno portato a diversi fermi e arresti. Primo tra tutti Giuseppe Vesco, carrozziere di Partinico, che il 13 febbraio 1976 fu fermato dai carabinieri e interrogato; egli confessò la strage e fece il nome di quattro persone: Giuseppe Gulotta, Gaetano Santangelo, Vincenzo Ferrantelli e Giovanni Mandalà.

Vesco ritrattò subito dopo, ma venne incarcerato e si suicidò 8 mesi dopo; gli altri indagati furono prima assolti e poi condannati.

Le torture e il verbale

Secondo le parole di Giuseppe Gulotta, riferite a Walter Veltroni sul Corriere della Sera nel 2001, egli all’epoca era solo diciottenne, e venne torturato dai carabinieri, che lo picchiarono con calci e pugni, e lo minacciarono con armi e bastoni.

Al momento della stesura del verbale, fu costretto a confessare di aver ucciso i due carabinieri Apuzzo e Falcetta durante la strage di Alcamo Marina, firmando un verbale sotto minaccia in cui si auto-accusava degli omicidi. Secondo le sue parole, Gulotta venne costretto a rispondere in modo affermativo alle loro domande, e al momento della firma venne minacciato che se non avesse scritto il suo nome e cognome, le torture sarebbero ricominciate peggio di prima.

Il processo Gulotta

L’iter processuale della strage di Alcamo fu molto lungo e complesso: il 10 febbraio 1981 i quattro furono assolti dalla corte d’assise di Trapani e scarcerati, quindi il 23 giugno 1982 nuovamente condannati a 20 anni e incarcerati per mezzo della Corte d’assise di appello di Palermo, in seguito la Cassazione annullò la sentenza, la Corte d’assise di appello di Palermo li condannò ancora nel 1985, e la Cassazione riannullò la sentenza il 12 ottobre 1987.

Ma non finisce qui: la Corte di Assise di Appello di Caltanissetta poco dopo li ricondannò a 30 anni di carcere, la Cassazione annullò la sentenza, e la Corte di Assise di Appello di Catania nel novembre 1989 li condannò definitivamente all’ergastolo.

Nel frattempo iniziò il carcere. Dopo 9 anni di prigionia a loro dire ingiusta, Mandalà morì di tumore alla prostata, mentre Santangelo e Ferrantelli tra un appello e l’altro scapparono in Brasile dove ottennero lo status ufficiale di rifugiati. Intanto, Gulotta rimase in carcere.

La libertà vigilata e l’assoluzione definitiva

Dopo 22 anni di carcere, Giuseppe Gulotta uscì in libertà vigilata, il 22 luglio 2010. Un anno dopo, nel 2011, l’avvocato Baldassarre Lauria dell’associazione Progetto Innocenti riaprì il processo, e il 26 gennaio 2012 il procuratore generale della Corte d’Appello di Reggio Calabria chiese il proscioglimento da ogni accusa di Giuseppe Gulotta, che nel frattempo scontava l’ergastolo in regime di libertà condizionata. Il 13 febbraio 2012, 36 anni esatti dopo l’accusa e dopo 22 anni passati in carcere, la corte lo assolse in formula piena.

La procura rinunciò a ricorrere in Cassazione; Gulotta fu assolto in sede di revisione del processo per errore giudiziario e ingiusta detenzione, con un rimborso di 6 milioni di euro da parte dello stato.

Anche Ferrantelli e Santangelo, ex latitanti, vennero assolti nel 2012, così come Giovanni Mandalà nel 2014, riabilitato dunque post-mortem.

La legge Pinto

La storia di Gulotta ha dell’incredibile, e forse anche grazie ad essa il 24 marzo 2001 venne emanata la legge n.89, nota anche come legge Pinto dal nome del suo proponente, l’ex ministro delle politiche agricole Michele Pinto.

Essa prevede che venga concessa l’equa riparazione per un danno subito per l’irragionevole durata di un processo. Come molto spesso accade in Italia, però, non è semplice intentare una causa contro lo stato; per questo motivo, negli ultimi anni, numerosi studi legali si sono interessati alla questione, proponendo assistenza per il risarcimento danni per la legge Pinto, in modo che i cittadini riescano a ricevere una compensazione adeguata per l’irragionevole durata dei processi, questa volta – si spera – in tempi rapidi.